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Criteri di attribuzione degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di CO2 nell’ambito della proposta di Direttiva europea su uno schema di emissions trading

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Criteri di attribuzione degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di CO2 nell’ambito della proposta di Direttiva europea su uno schema di emissions trading

Recently updated on Aprile 7th, 2021 at 01:18 pm

Il 6 febbraio 2002 il Parlamento Europeo ha approvato a maggioranza la proposta di decisione del Consiglio concernente l’approvazione, a nome della Comunità Europea, del Protocollo di Kyoto e dei relativi impegni. Con la manifestazione di sostegno, il Parlamento Europeo ha varato una serie di iniziative per ottemperare con successo agli obblighi di riduzione previsti dall’accordo di Burden Sharing. Per conseguire l’obiettivo di riduzione delle emissioni, minimizzando i costi per le imprese, pregiudicando il meno possibile lo sviluppo economico e la situazione occupazionale, senza arrecare disturbo al mercato interno, in particolare a quello dell’energia, la UE ha proposto, come indicato dalla proposta di Direttiva COM(2001)581 1 poi modificata nella COM(2002)680 def, un sistema di emissions trading che possa essere compatibile, in una fase transitoria, con normative nazionali in tema di riduzione delle emissioni di gas serra. Lo schema dovrebbe essere avviato nel 2005, con la partecipazione di circa 5000 imprese dei settori energia e industria, che rappresentano più del 46% del totale delle emissioni europee di CO 2 . La raggiunta posizione comune, del dicembre 2002, tra Consiglio e Parlamento europeo sulla proposta di direttiva sull’emissions trading, induce a ritenere che vi siano buone possibilità perché questa possa diventare operativa entro il 2003. Entro il 30 settembre 2003, infatti, la Commissione pubblicherà orientamenti per il monitoraggio ed entro il 31 dicembre 2003 una guida sui criteri di assegnazione delle quote. Da parte loro, gli Stati membri dovranno adottare le disposizioni nazionali di attuazione entro il 2004, mentre i paesi candidati dovranno provvedervi al massimo entro la data di adesione. Nell’attuale processo di sviluppo della Direttiva, uno dei punti cruciali è quello di attribuire, ai quattro macrosettori produttivi interessati 2 , obiettivi di riduzione e relative quote di permessi, secondo criteri che siano nel rispetto dei principi di equità, di libera concorrenza e, in generale, che non siano in contrasto, o meglio, recepiscano la normativa già vigente fra i Paesi membri. La discussione in tale ambito è molto aperta, perché si devono individuare dei criteri obiettivi e trasparenti che non operino discriminazioni fra imprese e settori, onde preservare l’integrità del mercato interno ed evitare distorsioni della concorrenza. La proposta della Commissione lascia alla discrezione dei singoli Stati membri la predisposizione dei piani di assegnazione, ma la Commissione si riserva il compito di esaminarli contemporaneamente, potendo esercitare l’opzione di veto, in modo da garantire un’assegnazione quanto più equa possibile. 1 Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un programma per lo scambio di quote di emissione dei gas ad effetto serra nella Comunità e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio. 2 Vedi appendice 1

Alla luce di queste considerazioni, CESI, nell’ambito delle attività di ricerca finanziate dal Ministero Attività Produttive e riguardanti la valutazione degli effetti ambientali sul sistema produttivo italiano della ratifica del protocollo di Kyoto, con riferimento ai vincoli di emissione dei gas serra, ha esaminato le principali “formule” di assegnazione degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO 2 , descritte in letteratura, che potrebbero essere applicate dall’Italia ai macrosettori coinvolti dalla proposta di Direttiva EU ET. In tal senso, dunque, CESI ha individuato tre “filoni” di metodologie: uno di carattere “storico” (grandfathering), uno basato su criteri di massima efficienza (benchmarking) ed uno sulla base di valutazioni economiche. Tali criteri sono stati applicati ai settori interessati dalla proposta di Direttiva, sulla base di dati acquisiti nel ’90, anno di riferimento e rispetto alla “fotografia” aggiornata al 2000 e su indicazioni tendenziali di sviluppo, proiettate al 2010. In tal modo è stato possibile avere una sensibilità sui progressi registrati dai settori rispetto alle condizioni di riferimento e poter stimarne le proiezioni di evoluzione future. Il quadro messo in luce dallo studio evidenzia, in prima istanza, che il “peso” dei settori coinvolti dalla proposta di Direttiva è circa il 53% dell’intera somma di emissioni di CO 2 nazionali nel 1990 (anno di riferimento del protocollo di Kyoto) e circa il 50% di quello del 1999. In tale fotografia, il settore energetico, inteso come somma dei sottosettori combustione, raffineria e cokeria, pesa per circa il 67-68% sull’intero ammontare emissivo dei quattro macrosettori. Considerando l’impegno di Burden Sharing, all’Italia compete l’impegno di ridurre del –6,5% le emissioni fatte registrare nel 1990. In termini assoluti significa, dunque, riportare le emissioni dei quattro macrosettori a 206,6 Mt CO 2 , circa 14,3 MtCO 2 , in meno di quelle del 1990. Se si considera , tuttavia, che le emissioni sono destinate a crescere nel 2010, in seguito allo sviluppo economico previsto, l’impegno complessivo di riduzione prevedibile per i quattro macrosettori, nel 2010, è pari a circa 66 Mt CO 2 . Tale obiettivo di riduzione, calcolato utilizzando dati pubblicamente reperibili, deve essere conseguito dai quattro macrosettori sulla base di sforzi differenziati, a seconda del principio di attribuzione applicato. Se si applicasse il metodo del grandfathering, i partecipanti dovrebbero ricevere obiettivi di riduzione proporzionalmente alle loro responsabilità emissiva fatta registrare in un determinato periodo di riferimento. Il quadro che ne deriva, quindi, è strettamente correlato allo scenario della baseline e allo sviluppo tendenziale emissivo/produttivo al 2010, dei settori considerati. Se si considera il 1990 come anno di riferimento (grandfathering puro), rispetto ad uno scenario tendenziale al 2010, l’obiettivo di riduzione maggiore, in termini assoluti, compete al settore attività energetiche (settore 1) che deve ridurre le emissioni di -9,4 Mt CO 2 , seguito da industrie dei prodotti minerali (settore 2) [-2,6 Mt CO 2 ],

produzione e trasformazione dei materiali ferrosi (settore 2) [-2,1 Mt CO 2 ] e, infine, altre attività (settore 4) [-0,3 Mt CO 2 ], per un valore complessivo di -14,4 Mt CO 2 . Considerando le stime tendenziali di evoluzione dei singoli settori al 2010, l’obiettivo nazionale di riduzione del – 6,5%, si trasforma in -32,2% per il settore energia, -17,8% per settore 2, 28,9% per il settore 3 e -60,8% per il settore 4. Se il riferimento è il 1999/2000, considerando, quindi, le early action, al settore attività energetiche compete sempre l’impegno di riduzione maggiore [-9,3 Mt CO 2 ], riferito ad un andamento tendenziale al 2010, seguito da industrie dei prodotti minerali [-2,2 Mt CO 2 ], produzione e trasformazione dei materiali ferrosi [-1,7 Mt CO 2 ] e, infine, altre attività [-0,3 Mt CO 2 ], per un valore complessivo di -13,6 Mt CO 2 . Considerando le stime tendenziali di evoluzione dei singoli settori al 2010, le percentuali di riduzione si trasformano in -32,2% per il settore energia, -16,5% per il settore 2, 28,1% per il settore 3 e -61,5% per il settore 4. Complessivamente, dunque, l’ipotesi grandfathering early action rispetto a quella grandfathering puro, prevede una minor riduzione di emissioni di CO 2 in valore assoluto [-0,8 Mt CO 2 ], ma non cambia significativamente il quadro di riferimento, attribuendo al settore energetico, in particolare a quello combustione, il ruolo di maggior responsabile emissivo, ai settori industrie dei prodotti minerali e produzione e trasformazione dei materiali ferrosi una responsabilità circa uguale, e infine, al settore 4, una piccola percentuale. L’approccio early action tende a privilegiare i settori raffinerie, cokerie, ghisa e acciaio e cemento, mentre non riconosce un significativo miglioramento per il settore energia/combustione. Se si applicasse un criterio di efficienza, l’attribuzione si baserebbe sulla identificazione di standard di prestazione caratterizzati da massima innovazione tecnica e massima efficienza ambientale (benchmarking) e sulla successiva misurazione quantitativa e qualitativa dei gap di ciascun settore rispetto ai riferimenti di eccellenza. Se si applica il criterio nella forma pura, utilizzando come riferimenti i più bassi criteri di benchmarking ovvero quelli ambientalmente più “impegnativi”, lo sforzo totale di riduzione da applicare ai vari settori sarebbe particolarmente oneroso, pari al 20% rispetto al dato totale dei settori registrato nel 1990. Lo sforzo di riduzione, non sarebbe uniformemente distribuito, ma risulterebbe fortemente penalizzante per i settori Raffinerie [1.2], Cokerie [1.3], Produzione e trasformazione materiali ferrosi” [2] e Vetro [3.2], caratterizzati da valori di benchmark molto bassi. Il settore Cemento [3.1] avrebbe un obiettivo di riduzione calcolato rispetto al 1990 di -8,8 Mt CO 2, pari a circa il 26%, mentre i restanti settori avrebbero obiettivi di riduzione molto più laschi. Questi forti sbilanciamenti trovano una giustificazione nel fatto che, proprio per questi ultimi settori, non esistono attualmente dei riferimenti di Bref ed i valori scelti come benchmark sono stati estrapolati da altre fonti. A completamento delle Bref si potrà disporre di valori più precisi e, quindi i valori scelti, in particolare per i settori 3.3 e 4, potrebbero essere soggetti a variazioni o mediazioni. Per risolvere questo problema, si è proposto di utilizzare un metodo misto grandfathering & benchmarking, che permette di “ammortizzare” lo sforzo di avvicinamento al massimo obiettivo ambientale.

La presenza, infatti, dei criteri benchmarking e grandfathering permette, di ridistribuire tra i settori lo sforzo di riduzione sulla base di considerazioni di proporzionalità ma tenendo conto anche di criteri di efficienza. In tal modo, infatti, gli obiettivi di riduzione risultano più “omogenei” rispetto alle analisi precedenti: i settori Raffinerie, Cokerie, Produzione e trasformazione materiali ferrosi e Vetro hanno sempre il maggior peso relativo di riduzione rispetto agli altri settori, in quanto soggetti a valori di benchmark molto bassi, ma con valori assoluti decisamente più bassi rispetto a quelli configurati per il caso benchmarking puro. Anche per i settori Cemento e Energia/combustione si registra una ridistribuzione degli obiettivi: al settore Cemento spetterebbe uno sforzo di riduzione minore [da –8,8 a -7,5 Mt CO 2 ], mentre al settore Energia/combustione si richiederebbe uno sforzo maggiore [da -22,7 a -31,6 Mt CO 2 ]. Infine, se si applicasse un criterio basato su considerazioni economiche, l’attribuzione delle quote di riduzione delle emissioni di CO 2 tra i diversi settori industriali avverrebbe attraverso una ripartizione basata sul Costo Marginale di Abbattimento (Marginal Abatement Cost – MAC). Il MAC, espresso in [unità monetaria]/[unità fisica], è definito come il costo [unità monetaria] associato alla ulteriore riduzione di una quota di emissioni di CO 2 [unità fisica], dato un livello di riduzione. Rappresenta quindi il costo di riduzione dell’ultima quantità di CO 2 . Secondo questo criterio, dunque, gli obiettivi di riduzione sono calcolati sulla base di considerazioni di carattere economico, sul principio dei minimi costi. In particolare il calcolo della distribuzione delle quote di riduzione in relazione al costo che ciascun soggetto dovrà sostenere per il rispetto del vincolo ambientale, è stato esaminato sulla base di due ipotesi: in condizioni di autonomia ed indipendenza dei settori (senza emissions trading) o in presenza di un sistema di cooperazione tra i diversi settori (con emissions trading). Poiché la metodologia richiede informazioni di carattere finanziario, difficilmente reperibili, la massima disaggregazione possibile è stata quella per settori o gruppi di settore. Secondo la prima ipotesi, al settore Combustione competerebbe una riduzione di -38,3 Mt CO 2 [-36% rispetto al 1990], complessivamente ai settori Cokerie e Raffinerie un riduzione di -8,1 Mt CO 2 [-19% rispetto al 1990], a Ghisa e acciaio [-16% rispetto al 1990] -5,9 Mt CO 2 , Cemento, Vetro e Ceramica -11,33 Mt CO 2 [-23% rispetto al 1990] e Carta e cartoni -2,9 Mt CO 2 [- 9,4 Mt CO 2 ]. Viceversa, nell’ipotesi di un meccanismo di emissions trading le quote di distribuzione degli obiettivi ai vari settori verrebbero modificate: al settore Energia/combustione competerebbe una riduzione di -34,4 Mt CO 2 [-32% rispetto al 1990], complessivamente ai settori Cokerie e Raffinerie una riduzione di -13,9 Mt CO 2 [-37,9% rispetto al 1990], a Ghisa e acciaio -7,9 Mt CO 2 [-23,4% rispetto al 1990], Cemento, Vetro e Ceramica -9,53 Mt CO 2 [-24,2% rispetto al 1990] e Carta e cartoni -0,9 Mt CO 2 [-0,2 Mt CO 2 ]. Dunque, dello sforzo di riduzione di 66,5 Mt CO 2 che si prevede che i quattro macrosettori italiani, coinvolti nella proposta di Direttiva ET, nel periodo 2010 (assunto come anno di riferimento del periodo 2008-2012), sulla base di uno sviluppo tendenziale dell’economia, dovrebbero sostenere per conseguire gli obiettivi nazionali di Burden Sharing, circa 47.3 ± 0.9 MtCO 2 dovrebbero essere a carico del settore energetico (combustione, raffinerie, cokerie), circa 7.15 ± 1.25 MtCO 2 a carico del settore produzione e trasformazione metalli ferrosi, 10.4 ± 0.9

MtCO 2 a carico del settore industria dei prodotti minerali e, infine, da 1.9 ± 1.0 MtCO 2 a carico del settore altre attività. Tutti i criteri adottati consentono di realizzare gli obiettivi di riduzione delle emissione di 66,5 MtCO 2 , ma ciascun criterio può avere impatti finanziari diversificati fra i settori e le imprese. La variabilità degli sforzi di riduzione al variare dei criteri di attribuzione è dovuta, essenzialmente, alle significative differenze che si registrano fra i macrosettori in termini di grado di sviluppo tecnologico e profilo emissivo, di stime tendenziali di crescita economica e dei costi marginali di riduzione delle emissioni di CO 2 . In particolare, i settori per i quali si registrano le maggiori variabilità sono quelli della produzione e trasformazione dei materiali ferrosi (17,5%) e delle altre attività (52,6%), mentre per il settore energetico la differenza è contenuta entro il 2%. In tale senso, l’utilizzo di un sistema di tipo “grandfathering”, basato su elementi storici, sebbene poco sensibile e “premiante” per la promozione dello sviluppo tecnologico e di tecniche di riduzione a basso costo, garantisce maggiori opportunità di certezza e di confrontabilità oggettiva. L’applicazione di questo metodo di assegnazione si differenzia proprio in base al periodo di riferimento: in questa scelta appare a pieno l’approccio essenzialmente “politico“ del criterio, che può premiare o penalizzare le azioni volontarie di abbattimento precedenti all’imposizione dei vincoli, riconoscendole (grandfathering early action al 1999) o meno (grandfathering puro al 1990). In quest’ottica, l’uso del criterio mediato, ad esempio sui contributi emissivi di tre anni consecutivi (1998-2000), permetterebbe di identificare al meglio il trend dell’impegno ambientale dei singoli settori, garantendo così l’equità dello sforzo di riduzione attribuito, in condizioni più sensibili rispetto all’attuale situazione tecnologica dei settori produttivi, tenendo conto, quindi, dello sforzo di implementazione tecnologico operato dalle singole aziende dal ’90. Merita attenzione la potenzialità del criterio “pesato” grandfathering &benchmarking: l’introduzione di un fattore correttivo, calcolato, ad esempio, in termini di benchmarking, sul “surplus” produttivo settoriale o di impresa rispetto alla media tendenziale di settore o nazionale, potrebbe “introdurre” un criterio economico “di correzione”, consentendo, in qualche modo, di mediare gli interessi ambientali nazionali con lo sviluppo economico. Questa correzione potrebbe evitare che l’onere di riduzione delle emissioni di CO 2 , fissato a priori in valore assoluto, possa diventare eccessivamente penalizzante per lo sviluppo industriale delle imprese, ma, allo stesso, richiamerebbe le stesse imprese alla responsabilità di operare, almeno per quel “surplus”, nelle condizioni ambientali più favorevoli, come indicato dalle Bat. Infine, il metodo dei minimi costi consentirebbe di ottimizzare l’aspetto finanziario e garantirebbe una distribuzione più equa, da un punto di vista economico, ma risulta di difficile applicazione data la necessità di introdurre semplificazioni e stime.

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